Lia Finzi - Brani dall'Audiointervista

Gli incontri con Lia Finzi si sono svolti nella sua casa a Venezia, 31 ottobre e 3 novembre del 2008, complessivamente si sono registrate più di tre ore di conversazione.

 

La famiglia, le persecuzioni razziali e la fuga in Svizzera.

Sono nata nel ’28, ho compiuto ottant’anni quest’anno. La mia è famiglia piccolo borghese, mio padre […] era ragioniere, faceva l’amministratore, siccome non era mai stato iscritto al partito fascista non aveva mai potuto fare concorsi pubblici e teneva amministrazione di privati. Aveva un giro di consulenze, la famiglia era una famiglia dignitosa senza essere ricca. Mi ricordo che da bambina domandavo a mia madre “Ma siamo ricchi o poveri?” “Né ricchi né poveri.” “Ma siamo più ricchi o più poveri?” Questo era il mio cruccio. Mia madre era casalinga, perché le donne poche lavoravano a quel tempo, lei era una madre attenta a tante cose per noi bambine. Siamo due sorelle, mia sorella è più vecchia di me di cinque anni, […] e avevamo una terza sorellina più vecchia che è morta bambina, a sette anni, io non l’ho conosciuta.

La mamma era molto attenta, era un’igienista, era attenta al tipo di cibo che mangiavamo, al tipo di vestiti, alla pulizia. Io ricordo che durante la guerra non si trovava il dentifricio assolutamente e allora prendeva delle larghe foglie di salvia e ce le faceva passare sui denti di mattina e di sera. Te lo dico anche perché durante le leggi razziali ho avuto degli incontri spiacevoli dove mi dicevano “Sporca ebrea”.[…]

Io mi guardavo e pensavo “Come sporca?” Avevo il grembiulino pulito, il collettino sempre bianco. Mia madre non era ebrea, non era neanche cattolica in senso tradizionale perché figlia unica di un padre socialista. Non potrei chiamarla, come si usa adesso, atea, era una poco praticante perché veniva da una famiglia ferrarese laica.

Il nonno era stato l’uomo di fiducia dei Passigli, una famiglia ebrea ricca che aveva una fabbrica. […] Mia madre era cresciuta in questo ambiente ebraico perché abitavano dentro o vicino alla fabbrica ed è così che ha conosciuto anche mio padre perché la sorella di papà abitava a Ferrara, era sposata con un anarchico che era in collegamento con questo mio nonno. Si sono conosciuti in casa della sorella.

Per accordo dei miei genitori non avremo praticato nessuna religione fino alla maggiore età, non ci facevano praticare né la religione ebraica né la cattolica., anche se eravamo iscritte alla comunità ebraica. […] La mia sorellina era stata sepolta in cimitero ebraico, tuttora è lì, perché nei cimiteri ebraici non c’è mai la dissepoltura. Andavo a trovare questa sorellina con mia madre che non ha mai smesso il lutto, io l’ho sempre vista vestita di scuro, blu o nero.

Nel ’38 vengono le leggi razziali, vado a scuola, iniziavo la quinta elementare e mia sorella era già al Tommaseo. E’ stata una tragedia perché in casa non praticavamo l’ambiente, mio padre certamente [sì], ma come nucleo famigliare eravamo abbastanza riservati. Certamente venivano le amichette di scuola, mia madre non aveva quasi amiche, mio papà anche. Avevamo questa famiglia del babbo che viveva vicino al Ghetto.

Mia nonna aveva ereditato il negozio del marito che era un antiquario di classe che usava andare col calesse in campagna e scambiava con i parroci da cui si faceva dare i vecchi pizzi e lui dava in cambio qualcosa di più moderno. Aveva la capacità di andare a scovare questi pezzi di antiquariato.

La nonna, morto il marito, era rimasta con sei figli, la più piccola aveva due, tre anni. Mio papà che era il penultimo ne aveva tre o quattro. Mia nonna ha aperto un negozio di trovarobe. Lei andava alle aste e prendeva le cose che le persone non riuscivano a riscattare e quindi aveva di tutto, dalle bambole a oggetti d’argento, non aveva solo antiquariato. Aveva perfino le pantofole friulane, sai, le ciocie e aveva una sua pantofolaia in Riviera del Brenta che le diceva di mandava i figli da lei in campagna. Poi noleggiava i costumi per Carnevale. Il negozio si trovava in San Leonardo e aveva delle cose meravigliose!

[…] Nel ’38 succede che vado a scuola. Le leggi razziali erano iniziate nel settembre tanto che i bambini “puri”, […] cioè di padre e madre ebrei, non sono neanche potuti entrare. Noi eravamo senz’altro nell’elenco degli ebrei veneziani, io ho cominciato l’anno scolastico e in classe con me c’era la Checca Musatti, Francesca, ed era nipote del famoso Musatti1.

Io abitavo a Sant’Angelo, lei a Santa Maria del Giglio, eravamo in classe assieme, due ebree e una protestante. La vecchissima maestra […] era ebrea, si chiamava Fleschner, non aveva neanche iniziato l’anno scolastico del 1939 ed era andata in pensione. Io quando sono arrivato in classe trovo una maestra nuova, bellissima, rossa di capelli. A me era piaciuta tanto rispetto all’altra vecchia, ingobbita. Ogni tanto soffiava su una macchinetta e poi aveva una preferenza per chi le portava da mangiare per i suoi gatti. […]

Arrivo a scuola, dove non c’era più la Checca Musatti, probabilmente non l’avevano neanche mandata, la maestra mi chiama e mi dice “Tu da domani non puoi più venire in questa scuola, prenditi i quaderni di “buona””- avevamo quelli di “mala” e quelli di “buona”- e mi manda a casa senza neppure avvisare. Arrivo a casa. Ero una bambina normale, bravetta. La maestra non mi conosceva, forse non si era ancora affezionata. Ma lo stesso era accaduto a mia sorella con i professori, non uno che avesse preso posizione! Disperata, il preside l’ha chiamata in presidenza e le ha detto “Non puoi più venire, ci sono queste leggi.” Mia sorella a casa disperata, anch’io ero attonita. I miei hanno cercato di spiegarci che purtroppo ci sono queste leggi. “E dove andiamo? Cosa faremo?”

Per fortuna la comunità ebraica ha organizzato una scuola media e superiore, quella elementare c’era già, frequentata da molti bambini che abitavano intorno al Ghetto. Io avevo una strada lunga da fare, comunque la quinta l’ho fatta là. La scuola media non c’era precedentemente alle leggi del ’38 e l’hanno fatta al Ponte Storto a Santa Maria Formosa. Il corpo insegnante era stato raccolto tra quelli che erano stati mandati via, per carità ne avevamo in abbondanza. Noi eravamo in quaranta in tutta la scuola, gli insegnanti licenziati ce n’erano tanti. Il preside era quello del Niccolò Tommaseo, Augusto Levi, poi deportato con la famiglia, allora erano le Magistrali, è stato mandato via e ha fatto il preside alla scuola ebraica e anche tanti professori. C’era la sorella di Gino Luzzato, mandata via dall’Università, era latinista e insegnò latino. Avevamo professori di grosso livello. In sette avevamo fatto l’esame di ammissione alla scuola media ebraica, che costava perché i professori dovevano mangiare! Non tutti hanno potuto frequentare, molti ragazzini che erano con me in Ghetto non hanno potuto, alla faccia di quelli che dicono che gli ebrei sono tutti ricchi. Difatti qualcuno era borsa di studio ma la comunità non poteva pagare per tutti. La scuola era un’ottima scuola e abbiamo imparato in più rispetto agli altri ragazzi. Di pomeriggio rimanevo a Cannaregio perché avevo la preparazione per la scuola media, inoltre c’era anche la lezione di ebraico. Andavo a mangiare dalla nonna che abitava lì vicino, ho avuto un anno di molta frequenza che poi è stato l’anno in cui è morta questa mia nonna. Andavo fino in Ghetto e avevo questa strada lunga da fare.

Avevo i ragazzini che mi urlavano dietro per le strade. Le mie ex compagnette di classe alcune erano molto “bene”, eravamo in centro città. Ne ricordo una […] che un giorno mi ha detto “Ebrea ebrea!” “No, non mi dire così!” (Con voce di pianto) Anche bambine che erano state amiche mie con le quali giocavo, mi urlavano di tutto per la strada!

Io ero una bambina molto fantasiosa e allora cambiavo strada per arrivare a Cannaregio, a volte passavo per Rialto, lì prendevo una “moeca” e per tutta la strada mi facevo far compagnia. Si usavano molto all’epoca i “ciarlatani” che vendevano elisir, callifugo eccetera. Quando li trovavo mi fermavo, mi affascinavano tanto […] Poi io a casa facevo uguale e mia mamma mi diceva “Ma cosa fai?!” Avevo tutte le mie bottigliette e giocavo a far la “ciarlatana”. Cercavo di passarmela.

Mi era piaciuto questo nuovo ambiente, intanto era misto, c’erano anche i maschi, avevo una maestra deliziosa, la maestra Bassan molto materna, affettuosa, che ci ha accolto bene. Mi sono sentita neofita, dovevo andare al Tempio, ho cominciato a imparare l’ebraico. Sono passata alla scuola media, ho fatto l’esame di ammissione a San Girolamo (scuola pubblica), eravamo in otto in classe. Mia sorella era in una classe con quattro o cinque che provenivano da vari licei. Questa scuola è stata una scuola democratica, direi, ci hanno abituato a ragionare, a pensare, a essere attenti allo studio. C’era attenzione da parte di molti docenti, ci dicevano i pericoli che avremo potuto incontrare, ci indicavano di non andare mai via da soli per la strada, di uscire assieme perché ricevevamo delle sgarberie, gente che ci veniva a urlare sotto la scuola. Eravamo in una casa, oggi c’è un alberghetto dove c’era la scuola ebraica. Varie stanze di una casa, la sala grande alla veneziana, con le stanze ai lati.

Si arriva alla guerra, agli anni Quaranta. E’ brutta per tutti, noi avevamo in più queste restrizioni, le scritte per la strada, nei locali “Non sono graditi né i cani né gli ebrei”, “Ebrei spie” stampigliati su tutte le strade. […]

Avevamo le ristrettezze che avevano anche gli altri, le code per mangiare, le tessere annonarie, i figli che partivano e non tornavano, bombardamenti a Marghera, al Lido. Avevamo gli stessi problemi degli altri, in più eri anche ebreo! Fino al ’43 abbiamo avuto una vita relativamente normale.

Mio papà ascoltava la radio inglese, aveva amici che leggevano, ma non si aveva idea del disastro della Shoah. Il presidente della Comunità, il prof. Jona2 si è ucciso per non dare i nomi dei correligionari! Mio papà era preoccupato a sbarcare il lunario, sempre meno aveva amministrazioni da curare, era sempre più difficile per tutti la vita. Avevamo avuto sentore di quello che era successo a Roma in ghetto, che avevano portato via 1300 persone, con noi ragazzine non si sottolineava molto ma ci si chiedeva chissà dove li portano. […] Si pensava “Li porteranno in campo di lavoro, ma vecchi e bambini dove li porteranno?” Qualcuno aveva detto che aveva visto un treno a Padova e dalle feritoie erano stati buttati dei bigliettini. I ferrovieri di Padova lo avevano detto a qualcheduno. Non è che ci si sentisse di andare in giro a chiedere dopo l’8 settembre.

Abbiamo provato a scappare tutti assieme, prima ognuno di noi dormiva in una casa diversa di amici. Mia mamma era rimasta a casa, dicevano che non avrebbero toccato chi non era ebreo. Mio papà andava a dormire da un amico, io dalla signorina d’ufficio di mio papà, mia sorella da Fantoni, che chiamavamo zio. I Fantoni avevano una grossa tipografia. Per me star lontano da mia mamma era un problema. Allora papà ha provato di andare tutti assieme in una zona dell’Emilia, non a Ferrara perché il nonno era troppo conosciuto come antifascista. […] Parlava apertamente e ad alta voce, criticava Mussolini. […]

Siamo andati nella zona delle Valli di Comacchio, ma viene uno alla stazione per dirci dove saremo dovuti andare e invece ci dice di tornare indietro perché la notte prima c’era stata una retata di partigiani e di ebrei. Rimontiamo in treno e torniamo a Venezia. Il 30 novembre viene fuori il decreto che il giorno dopo tutti gli ebrei sarebbero stati messi in appositi campi. Mio padre era molto attento, intelligente e voleva salvarci in ogni modo. Alcuni ebrei sono scappati, sono andati verso il sud Italia perché pensavano che Roma sarebbe stata presto liberata, già gli Alleati erano sbarcati in Sicilia e piano piano salivano. […] Intanto erano scesi i tedeschi. Qualche ebreo era andato in campagna fingendosi sfollato, conoscevano qualche casa di contadini, sapevano che erano ebrei ma facevano finta di non saperlo. Molti sono andati in queste campagne, qualcuno si è nascosto qua in città, in soffitte senza mai muoversi.

Mio padre, come altri, aveva deciso di andare in Svizzera. Siamo scappati il giorno dopo, mio padre ha trovato i soldi in prestito da questo Fantoni e da altri amici. Il socio di Fantoni, Bepi Zignol, lo chiamavamo zio, ci ha accompagnato fino a Milano, è venuto con noi, coi soldi cuciti nel suo cappotto, non avevamo documenti falsi. In stazione a Venezia c’erano diversi ebrei, facevamo finta di non conoscerci. Mia madre soffriva di asma molto forte, avevano detto a mio padre che non avrebbe mai potuto passare le Alpi. Allora essendo cattolica è rimasta in casa di questo Zignol. E’ venuta ad accompagnarci alla stazione e poi è morta cinque giorni dopo. […] E’ morta di crepacuore, non ha sopportato! Non aveva saputo se eravamo riusciti a passare.

Siamo arrivati a Milano, avevamo l’accordo che se qualcuno venisse a domandare i documenti li avrebbe mostrati per primo Bepi Zignol. Non potevamo certo andare in albergo. A Milano c’erano i rifugi antiaerei e dentro ci stava di tutto: barboni, ebrei …, ci siamo rimasti ben quattro giorni perché papà doveva trovare i contrabbandieri. Di giorno giravamo in città, ma c’erano bombardamenti in continuazione a Milano. Tornavamo alla sera dentro a questo sottopassaggio dove c’era di tutto, di tutto! Ho visto il rabbino di Venezia cieco, che poi è tornato a Venezia ed è stato deportato coi vecchi della Casa di riposo, aveva fatto un tentativo di passare in Svizzera. Il primo posto in cui è andato mio papà è stata dalla Maria di Viggiù. La signora Maria aveva la casa proprio sul confine, di qua c’era l’Italia, di qua la Svizzera. Ne ha fatto passare tanti, quando mio papà si è informato per questa Maria è venuto fuori che l’avevano già scoperta. Uno che salvava un ebreo faceva la stessa fine, c’era anche una taglia, cinquemila lire. Alcuni contrabbandieri si prendevano i soldi degli ebrei e anche la taglia. Mia sorella aveva un ragazzo e così è stato deportato.

Mio papà, preso dalla disperazione, gli è venuto in mente che l’ingegner Franceschini di Brunate, sopra Como, gli aveva detto a Venezia, quando era venuto per un lavoro, “Signor Finzi se ha bisogno venga da me che le trovo le persone giuste!” Mio papà ci ha pensato dieci volte per non mettere in pericolo altre persone però, preso dalla disperazione, va da questo ingegner Franceschini. […] Arriviamo su e vediamo che siamo pedinati a Como. Avevamo appuntamento […] a Como dove c’è la funicolare che porta su a Brunate. Lui ha una villa lì.

[…] L’ingegner Franceschini trova i contrabbandieri, li fa incontrare col papà e dice “Sono persone che conosco, non possono fare scherzi.” Noi non sapevamo che gli svizzeri mandavano indietro e che i contrabbandieri talvolta prendessero la taglia e anche i soldi degli ebrei. [Lo] abbiamo saputo dopo, la Liliana Segre e altri raccontano questa storia.

Il viaggio è stato molto avventuroso, la sera andiamo in una casera vicino a Como, lì troviamo due coppie di Roma, una di anziani e una di più giovani, Rochas, marito e moglie senza figli col papà e la mamma, noi e un giovane renitente alla leva che è parente di questi contrabbandieri, quindi anche questo ci tranquillizza. Ci dicono che dobbiamo raggiungere una casera sotto monte e che dovevamo arrivare sparpagliati. I due vecchi in carretto col cavallo, tutti coperti così da sembrare vecchi contadini. I due giovani, lei aveva un’asma spaventosa, erano a piedi come a fare una passeggiata. Mio papà, mia sorella e io in bicicletta, passiamo proprio davanti a una caserma, facciamo finta di niente e arriviamo in questa baita. Qui ci mettiamo le scarpe di tela per non far rumore, uno zaino con poca roba dentro, ci mettiamo addosso doppi vestiti. Avevo un tailleure, sopra un cappotto, uno zaino e ci fanno aspettare che venga buio. Ci danno un risotto, finché mangiamo i contrabbandieri cominciano a litigare nella stanza vicino per la divisione dei soldi, non so cosa dicevano. La loro “capa” era una specie di Mata Hari, una donna terribile, parlavano “lumbard” tra loro.

Noi [siamo] terrorizzati, a un certo momento si calmano e ci dicono che dobbiamo partire. “Dovete stare in fila indiana, ricordarsi di seguire sempre gli ordini.” Mio papà si mette dietro al contrabbandiere, e noi dietro, poi due anziani, la giovane ansimava. All’inizio aiutavamo a sostenere la vecchia, fino a che arriviamo in una radura in mezzo al bosco e vediamo i contrabbandieri che scappano, noi corriamo dietro ai contrabbandieri. Uno, che era rimasto un po’ indietro con gli anziani e la coppia, si mette a gridare “Bepi vien chi! L’è el Giuannin!” Torniamo indietro e c’è un fascista tutto vestito di nero, era una guardia frontaliera. Comincia a dirci “Eh, hai visto come si fa a prendere la gente!”

Mio papà ha detto “Mi fucili qua, la prego per le mie figlie!” I vecchi cominciano a piangere “Mi ve consegne, i me dà i soldi!” Allora abbiamo cominciato a dire “Vi diamo tutto quello che abbiamo!” Perfino la fede di mio papà, la mia catenina con l’angioletto che mi aveva fatto fare mia mamma, per non avere simboli. Tutto, tutto si è preso! “Ndè, ndè!” E sparì con tutto l’oro. Secondo me erano d’accordo.

Ci dicono che da questo momento bisogna correre perché i tedeschi portano i cani a mangiare. Ci fanno attraversare una strada rotabile, entriamo in una specie di pianoro e ci mettono nell’acqua, perché i cani non dovevano sentirci. Era il 5 dicembre, io battevo i denti e mi ricordo che questo ragazzo mi diceva “Non aver paura, non aver paura!”

Sono passati i tedeschi, hanno portato i cani a mangiare. Appena passano ‘sti contrabbandieri ci dicono “Su svelti, ricordatevi di correre e di non fermarvi mai!” Mio papà ci ha detto “Bambine, noi ora corriamo dietro al contrabbandiere, chi ce la fa ce la fa!” Corri in mezzo al bosco, in mezzo ai rovi, fino a che arriviamo alla rete coi campanelli.

Il contrabbandiere dice che ha già preparato il buco. Va in cerca, non lo trova, col forbicione comincia a tagliare, “din, din, din” suonano i campanelli. Impreca, insomma, rifà il buco. “Adesso passate, correte per cinquecento metri perché possono sparare anche al di là della rete.”

Mio papà spinge prima me, poi l’Alba, poi lui e per fortuna arrivano anche gli altri. Il ragazzo arriva per ultimo e spinge dentro i vecchi, gli altri e noi siamo davanti e corriamo! Quando arriviamo tutti assieme al di là di questa collinetta non c’è il ragazzo! Abbiamo sentito sparare e non sappiamo come è andata a finire! Non c’era. Crediamo di essere salvi, ci abbracciamo felici. Sentiamo piangere un bambino, erano appena passati lì vicino una coppia giovane, due avvocati di Ferrara, Levi, avevano il piccolo nella gerla e lo avevano addormentato con qualcosa e si stava svegliando. La bimba a manina aveva quattro anni. Camminiamo e vediamo tutte le luci, da noi c’era il coprifuoco, ci sembrava di essere arrivati in paradiso.

Arriva una guardia “Beh, cosa volete?” “Cosa vogliamo?!” “Venite in caserma!” In caserma c’è il capo, che era uno svizzero tedesco, ci dice che basta, la barca è piena e non ci sta più nessuno! “Ah, mi dispiace ma vi conviene tornare indietro subito che è buio! Vi portiamo in un punto che non vi troveranno ma vi conviene tornare indietro!” “No, aspettiamo domani mattina.” “Ah no! Basta! Noi abbiamo la nostra legge che prevede di accogliere solo i perseguitati politici. Voi cosa siete? Siete ebrei? Tornate indietro!” […] Mio padre interviene con decisione, “Voglio parlare con Berna!” “Berna, a quest’ora! Fino a domani mattina non si può telefonare!” “Bene, aspetto domani mattina.” “Il massimo che possiamo fare, teniamo i due anziani e mandiamo indietro i due giovani, possiamo tenere la signora coi due bambini piccoli e torna indietro il marito, e lei e sua figlia più vecchia tornate e resta la piccola.” Fino a sedici anni sei minorenne in Svizzera e sei sotto la protezione della Croce rossa. “Ma scherza!” E anche gli altri si difendevano, i due avvocati cercavano degli argomenti validi, i vecchi piangevano. Riescono a contrattare che la mattina dopo provavamo a chiamare Berna, il consolato e il governo. Ci portano a Balerna, appena passato Chiasso, noi eravamo passati a Ponte Chiasso, ci portano in una scuola che era piena di ebrei. Siamo là e non sappiamo a che ora avrebbero potuto parlare, se ci avrebbero tenuto.

Al mattino, vedi i colpi di fortuna, arriva il sindaco di Chiasso, un “panzon”, si fa vedere che viene a trovare i profughi e porta sigarette, sigari, cioccolata per i bambini. Mio papà lo avvicina e gli tocca la spalla “Scusi sa, sindaco, le pare giusto che sti poveri vecchi …, e che io lasci la figlia …” e gli fa tutta la storia.

“Oh, quante volte vi devo dire di non dividere le famiglie!” Si fa vedere benefattore, ha telefonato lui a Berna. Insomma, siamo stati l’unico gruppo che in quei giorni è rimasto al completo.

 

Vivere al “Biancotto”3

 

Il “Biancotto”, il convitto per orfani di partigiani, nasce nel ’47 per iniziativa di alcuni ex partigiani. Viene coinvolto il Consiglio Comunale, tanti collegi qui funzionavano, era la “pietas” veneziana. Era sostenuto dal Comune e dalla città, io ricordo che in ogni osteria c’era una cassetta con scritto “pro Biancotto”. Era sostenuto dalla città antifascista ma anche complessivamente, dagli intellettuali, dagli artisti. Era passata come delibera in Consiglio Comunale, sostenuta da Gianquinto4 […]. All’inizio era un collegio tradizionalissimo, su ogni letto dei ragazzi c’era la targhetta col nome del partigiano morto, quando i bambini andavano a letto “tin, tin” sul letto di ferro, suonava ‘sta targhetta, che orrore!

La direzione del convitto va in crisi, Lizzero5, segretario della Federazione chiama Gramola e Federici6. Erano studenti universitari, Gramola faceva Architettura, Federici faceva Lingue. Li chiama e li fa stare in anticamera, il segretario di Federazione allora era un’autorità. Chiede “Chi è il più bravo di voi due?” Momi dice “Se lui è segretario e io vice, è più bravo lui!” “Va bene, tu sarai il preside, tu il direttore didattico del “Biancotto”.” Loro non sapevano neanche cosa fosse il “Biancotto”. “Da domani- loro dormivano in Casa dello Studente perché Gramola veniva da Schio, Momi da Verona- dormite in convitto con i ragazzi.” Loro si guardano, è un ordine del segretario di Federazione, ci vanno e vedono tutta ‘na banda de fioi, sessanta! Bisognava dar loro da mangiare, c’era la cuoca, la guardarobiera, il calzolaio, tante scarpe da aggiustare tanto che serviva un calzolaio interno e bisognava farli studiare! Loro hanno coinvolto tutta la cellula universitaria e sono andati tutti a fare volontariato. Io alla mattina insegnavo alla scuola ebraica e di pomeriggio andavo al “Biancotto”.

[…] L’esperienza del “Biancotto” è stata un’esperienza molto forte, molto interessante, bellissima, nel senso che l’abbiamo creato un nuovo modo di stare nel collettivo, con esperienze educative che anticipavano di dieci anni quelle di don Milani. Li mandavamo tutti alla scuola pubblica, le elementari erano vicino al convitto, alla “Zambelli”, poi a seconda delle loro capacità, delle loro scelte o della famiglia, li mandavamo ai licei, agli istituti tecnici, c’era la media e l’avviamento. Qualcuno che non era brillante è stato mandato all’avviamento, gli altri alla scuola media.

Nel Consiglio di amministrazione c’erano gli operai dei Consigli di fabbrica, tutta Marghera, i portuali, […]gli intellettuali che da sempre avevano collaborato e avevamo dei sostentamenti che veramente ci hanno permesso di vivere. Quelli della Vetrocoke [….] davano dieci chili [di carbone] a testa per il “Biancotto”, ci scaldavamo tutto l’inverno. Poi l’Italsider, la Breda lasciavano il pasto del sabato […], quindi ci arrivavano i viveri in natura: gli spaghetti, l’olio […]. I braccianti del ferrarese [e] a Natale avevi tanti “bisati” da Comacchio che ti uscivano dagli occhi! Gli ortofrutticoli del mercato a mezzogiorno con la barca … I ragazzi avevano imparato a vogare, erano diventati venezianissimi pur essendo tutti dell’entroterra, andavano al mercato di Rialto dove o ci regalavano o ci davano a poco prezzo la verdura rimasta. Avevamo un macellaio che, poveretto, avanza ancora soldi! I pescivendoli ci davano anche loro molta pesca, era tutta la città che era solidale […].

[…] Le grosse battaglie, anche politiche, che abbiamo fatto al “Biancotto”, prima come cellula universitaria comunista, e poi quando mi sono sposata, vivendo dentro ventiquattro ore su ventiquattro in convitto, dove non chiudevamo mai la porta della nostra stanza perché i ragazzi potevano aver bisogno in qualsiasi momento di noi. Provenivano da ambienti poveri, ricorda “Lettera a una professoressa” di don Milani ma dieci anni prima, e abbiamo dovuto fare delle battaglie perché fossero accettati nella scuola pubblica come ragazzi normali. Questa esperienza mi ha portato a essere molto combattiva, sempre in difesa di queste situazioni così gravi. Le madri che venivano in convitto, […] venivano a turno a darci una mano nei momenti di cura. Le abbiamo anche coinvolte a livello didattico perché erano donne giovani, rimaste vedove giovani che lavoravano e che avevano conosciuto la diffidenza nei loro paesi di origine, una donna sola che lavora, che è giovane! Qualcuno subiva le diffidenze anche dal punto di vista politico perché moglie di partigiano caduto. Avevamo ragazzi provenienti dal “triangolo della morte”, dall’Emilia, e dalle regioni dell’Alta Italia.

Avevamo ad esempio i Mazzoni che avevano visto l’agrario uccidere una zia e i fratelli l’agrario, quindi situazioni anche molto tragiche che i ragazzi avevano vissuto. […]

[Dovevamo battagliare] perché i ragazzi venissero accettati e non solo accettati ma anche valorizzati per quello che potevano dare. Ogni ragazzo può dare qualcosa, bisogna essere insegnanti capaci di estrapolare e portarli a un livello accettabile, anche dove scarseggiano. Ragazzi poverissimi che in casa non avevano certo una biblioteca, non avevano un bagaglio culturale, né un linguaggio adeguato.

[Noi insegnanti] studiavamo Makarenko7, alla sera studiavamo con gli stuzzicadenti per tenere gli occhi aperti! Facevamo lavoro e studio di gruppo. Veniva Balladelli8 a farci lezione, abbiamo fatto un corso su Gramsci e gli intellettuali e [questo] dopo aver lavorato tutto il giorno! Ci davamo dei programmi, avevamo forti intuizioni, direi. In più lavoravamo perché il convitto non fosse un’isola felice chiusa, era, allora questo era all’avanguardia, un convitto aperto e venivano nel pomeriggio a fare il doposcuola i bambini più poveri della città, di Santa Marta, di Cannaregio, della Giudecca. Avevamo tutti i quartieri che ci mandavano i ragazzini a fare sport ma anche le attività, i compiti. I nostri ragazzi avevano un rapporto costante col territorio.

Purtroppo nel ’57, devo dire che le sinistre hanno avuto poca sensibilità verso la scuola. L’attenzione del partito era per la scuola pubblica, giusto, ma non tenevano conto che i ragazzi non si educano solo a scuola, c’è un problema di tempo libero, altrimenti la lasci ai preti l’educazione! Il fatto che erano diminuiti i figli dei partigiani, ovviamente, avevamo cominciato a prendere gli orfani di lavoratori e di licenziati per motivi politici e sindacali. E’ il periodo di Scelba9, arriviamo a un punto che siamo sfrattati definitivamente. La casa era nella ex Gioventù Italiana del Littorio, tutti i beni sono stati ereditati dalla Gioventù Italiana, questo ente ci aveva dato lo sfratto un sacco di volte e i nostri avvocati, Sullam10, Gianquinto, Angelini, erano sempre riusciti ad andare avanti. Viene definitivo il fatto che ci mandano via. Pensavamo di fare una raccolta fondi per comprare e fare, oltre a far terminare gli studi ai ragazzi, un centro culturale giovanile per la città. Avevamo trovato tre opportunità, qui alle Zitelle, un altro posto molto bello, alla Vida, che costava trenta milioni ed erano tanti! Avevamo trovato dieci milioni da parte di quelli che rinunciavano alla liquidazione, erano gli ingaggiati, la cuoca, la guardarobiera ma anche i maestri. Dieci milioni ce li dava l’avvocato Sullam, sulla parola, pensa che brava persona! […] “Quando potrete me li restituirete!” Dieci milioni doveva metterli l’ANPI che era l’ente che ci seguiva. L’ANPI ci disse che non era tempo di fare debiti perché ne avevano già altri, c’erano scelte prioritarie da fare eccetera eccetera. Con grande dolore vengono, chiudono, sbaraccano. Le donne sulle barche “Varda! I vende i materassi al “Biancotto”!”

 

Indice dei nomi

Angelini avvocato

Balladelli Mario

Bassan Renata

Biancotto Francesco

Fantoni Mario

Federici Girolamo (Momi)

Finzi Alba

Fleschner Emma

Franceschini ingegnere Brunate (Como)

Gianquinto Giobatta

Gramola Giovanni

Gramsci Antonio

Jona Giuseppe

Levi Augusto

Levi di Ferrara

Lizzero Mario

Luzzato Gino

Macarenko Anton Semenovič

Maria di Viggiù

Mazzoni di Argenta (Fe)

Milani Lorenzo

Musatti Francesca

Passigli famiglia

Rochas di Roma

Scelba Mario

Segre Liliana

Sullam Renzo

Zignol Giuseppe

 

1 Cesare Musatti, psicoanalista nasce a Dolo nel 1897 e muore a Milano nel 1989. Allievo e assistente di Vittorio Benussi, nel 1938 ricopre per poco tempo l’incarico di professore all’Università di Urbino che perde a seguito delle leggi razziali. Si trasferisce a Milano dove insegna filosofia in un liceo fino al 1943, quando viene chiamato da Olivetti ad Ivrea per creare un laboratorio di psicologia del lavoro.

2 Giuseppe Jona, presidente della comunità ebraica di Venezia, si uccide il 17 settembre 1943 per non consegnare l’elenco coi nomi e gli indirizzi degli ebrei residenti alle truppe tedesche da pochi giorni in città.

3 Francesco Biancotto, a cui viene intitolato il convitto veneziano, era nato a San Donà di Piave nel 1926 da famiglia operaia ed era falegname. Da comunista aderì alla Resistenza, con altri compagni venne arrestato nel gennaio del 1944 e portato a Venezia dove, dopo averlo inutilmente interrogato, fu recluso in isolamento a Santa Maria Maggiore. Fu prelevato dal carcere all’alba del 28 luglio del 1944 e condotto con altri dodici politici sulle macerie di Ca’ Giustinian, sede della Guardia Nazionale Repubblicana, e lì fucilato. Il 29 luglio del 1945, nell’anniversario dell’eccidio, dalle pagine de “La Voce del Popolo” venne lanciata l’iniziativa di creare un istituto per gli orfani dei partigiani caduti durante la guerra di Liberazione e aperta una pubblica sottoscrizione. Il principale promotore era Angelo Furian, partigiano comunista. Nel mese di agosto ci furono le iniziative dell’attore Memo Benassi, che mise in scena uno spettacolo teatrale, e quella dei pittori veneziani che organizzarono una mostra collettiva d’arte. Iniziò la raccolta fondi tramite le commissioni interne delle fabbriche e la giunta popolare di Venezia incaricò il comitato promotore di gestire la distribuzione e la vendita della legna da ardere nell’inverno del ‘45-’46. La somma necessaria, più di quattro milioni di lire, fu raggiunta già nel dicembre del 1946, il convitto aprì ufficialmente nel giugno del 1947 nella sede dell’ex GIL, in fondamenta dei Cereri 2427/a, sestiere di Dorsoduro. La cerimonia di inaugurazione fu presieduta dal primo sindaco eletto democraticamente a Venezia, il comunista Giobatta Gianquinto. L’anno successivo il controllo amministrativo fu affidato all’ANPI e il Biancotto venne inserito nella rete nazionale dei convitti scuola “Rinascita”. Dopo la sconfitta del “Fronte popolare” nelle elezioni politiche del 1948 e l’isolamento politico del PCI inizia la lunga serie di difficoltà economiche che caratterizzano gli anni di vita dell’istituzione. Si cercò di far fronte con la solidarietà materiale da parte operaia e popolare e il convitto si aprì ai figli degli orfani dei caduti nelle lotte per il lavoro e dei figli dei licenziati per discriminazione politica e sindacale. Il Consiglio di Amministrazione era formato per la maggior parte dai rappresentanti delle Commissioni interne delle fabbriche di Porto Marghera. Nel 1950 l’ANPI destituì il comitato direttivo che fu sostituito da un commissario straordinario, Livio Livi, direttore organizzativo del Convitto “Rinascita” di Milano e nel 1951 si costituì il nuovo gruppo dirigente che operò profondi mutamenti pedagogici e amministrativi, tra i quali ricordiamo Stelio Fanton, Girolamo Federici, Lia Finzi, Giovanni Gramola e Renzo Marton. Nel mese di maggio ci fu un intervento d’autorità da parte del prefetto e viceprefetto che accompagnati da un nucleo della Celere imposero un commissario da loro indicato. La cosa suscitò vive reazioni e proteste, si ricorse al Consiglio di Stato che dichiarò illegittima la nomina. Nell’agosto fu notificato al convitto una ordinanza di sfratto, lo stesso nel gennaio del 1952. Fu organizzata la protesta: presero posizione a favore l’ANPI, i sindacati, i parlamentari, gli intellettuali e artisti, l’amministrazione provinciale e comunale di Venezia; le mamme dei convittori inviarono un telegramma al Presidente della Repubblica Einaudi. Si giunse alla stipula del contratto d’affitto per cinque anni. La presenza delle madri dei convittori era considerata essenziale a vari livelli dal gruppo dirigente: erano coinvolte nella cura quotidiana dei ragazzi, nella difesa dell’istituzione, nell’elaborazione, realizzazione e verifica del progetto educativo. Nel 1955 venne costituita la Commissione permanente delle mamme. Nel 1956 il convitto ricevette uno sfratto esecutivo, furono esplorate diverse ipotesi d’acquisto di un immobile a Venezia dove trasferire i ragazzi, ma l’ANPI nazionale, nonostante le pressioni, non aveva più la volontà politica di far vivere il “Biancotto”. L’esperienza fu conclusa definitivamente nel giugno del 1957.

4 Giobatta Gianquinto, cfr. il Dizionario biografico dei veneziani on line sul sito della Fondazione Gianni Pellicani.

5 Mario Lizzero, cfr. il Dizionario biografico dei veneziani on line sul sito della Fondazione Gianni Pellicani.

6 Girolamo Federici, cfr. il Dizionario biografico dei veneziani on line sul sito della Fondazione Gianni Pellicani.

7 Anton Semenovič Makarenko fu pedagogista e scrittore ucraino (Belopol’ 1888- Mosca 1939). Nel 1920 fondò la sua prima colonia- collettivo che raccoglieva bambini e giovani abbandonati o disadattati dalla cui direzione fu estromesso nel 1927. Negli anni successivi si occupò della scuola elementare e popolare a Kriukov dove, accanto all’istruzione, gli allievi ricevevano una formazione morale e civile. Il punto centrale della sua proposta pedagogica era la creazione di un collettivo che sapesse, attraverso la collaborazione, le attività manuali e lo sviluppo integrato della personalità, fornire le motivazioni per un reinserimento sociale, contrapponendosi alla teoria allora in voga che il delinquente era il risultato di una predisposizione naturale.

8 Mario Balladelli, (1919-1986), veneziano, comunista e partigiano rappresenta il partito nel CLN e nel C.V.L. provinciale di Venezia. Laureato in Filosofia è professore di Lettere e scrittore, suo è il libro “Un partigiano senza mitra”. Dirigente del PCI, è Consigliere Comunale a Venezia dal 1951 al 1955. Nel 1982 è Presidente dell’ANPI di Mestre.

9 Mario Scelba (1901-19919) esponente politico democristiano. Fortemente anticomunista fu Presidente del Consiglio e più volte Ministro degli Interni nel corso degli anni Cinquanta. La sua azione politica fu orientata e reprimere con durezza qualsiasi manifestazione di piazza.

10 Renzo Sullam avvocato e esponente socialista veneziano.