Lucio Strumendo - Brani dell'Audiointervista
L’intervista si è svolta a Mestre nell’ufficio del professor Strumendo il 20 luglio 2009; ha una durata di circa un’ora.
Un dirigente comunista tra prima e seconda repubblica.
Io ho vissuto nel corso dell’esperienza parlamentare il passaggio dal vecchio PCI alle successive formazioni fino al Partito Democratico e le ho vissute tenendo fermo un punto originario, di cui avevamo già detto nella precedente conversazione. Io, conclusa l’esperienza amministrativa di Presidente della Provincia, inizi degli anni Ottanta, e nel momento in cui cominciavo l'esperienza di parlamentare ero venuto ormai definendo la mia posizione politica all’interno del dibattito che a Venezia era stato fortemente caratterizzato fra la posizione operaista che faceva capo a Cesco Chinello1, e che aveva avuto particolari momenti di confronto anche con l’”entrismo”, quindi con Potere operaio, con Massimo Cacciari2, da un lato e la posizione riformista dall’altra. L’esperienza amministrativa di Presidente della Provincia, credo, mi abbia molto insegnato ad avere riguardo, attenzione e senso della misura nei confronti delle posizioni politiche altre. La politica è il risultato del confronto, della dialettica e quindi del riconoscimento della validità della controparte. Mi sono portato dietro da quel momento in poi, questo retaggio, questa impostazione che educa, introduce al gradualismo, al riformismo, al superamento della concezione, uso un’espressione che in questi anni è diventata di moda dopo il libro di Ricolfi3, secondo cui ci sono coloro che hanno la verità, che sono portatori dell’ideologia giusta, che hanno il compito di insegnare agli altri come dovrà andare il mondo, e quindi questa concezione un po’ pedagogica e caratterizzata dal principio della diversità, Berlinguer insegna. Mi sembra che in quel momento io fossi predisposto al superamento di questo tipo di concezione. Insomma la mia collocazione la sentivo più idonea con le posizioni dei riformisti che, allora, erano rappresentate da Giorgio Amendola, da Giorgio Napolitano, Gianni Pellicani4, Giovanni Cervetti. Diciamo che il passaggio che è stato segnato dalle vicissitudini congressuali, dalla segreteria di Achille Occhetto e la svolta dopo l’89. Il passaggio dal partito comunista al partito democratico di sinistra ha rappresentato, sotto certi aspetti, un meccanismo liberatorio, cioè uno si sentiva legittimato di avere una propria peculiare identità insieme ad altri, c’è un filone di pensiero, c’è una idea della politica, c’è una idea delle relazioni all’interno del dibattito politico, ci sono alcune idee che riguardano anche, tanto per dare un argomento, la forma di Stato, le grandi riforme istituzionali e perché finalmente non poterlo dire, non poter esplicitare per quello che sei nel tuo pensiero, nelle tue esperienze. Ed elaborare finalmente che quello che mi diceva mio papà “Vedrai Lucio un giorno il sol dell’avvenir! Vedrai che un giorno succederà una certa cosa”, questa idea era una mitologia, i processi sono graduali, sono lenti, sono di trasformazione. La tua identità di ideali o di ideologia la misuri costruendo, partecipando alla costruzione di un progetto, di una trasformazione graduale della società. In qualche modo da un lato sentivo psicologicamente che si perdeva il pregio del centralismo democratico, un grande collettivo, l’intellettuale organico, il partito che pensa, la sua unità, i momenti di sintesi, sentivo che si veniva perdendo un elemento di distinzione, di forza, di identità personale, ma dall’altro apprezzavo il vantaggio di poter essere meglio me stesso, dare rappresentazione anche esterna di me stesso.
[…] Questo passaggio l’ho vissuto nella vita della mia sezione, nella mia zona, il Veneto orientale, negli organismi dirigenti territoriali, oltre che come deputato e dirigente di Federazione. L’ho vissuta in una posizione di “combattimento”, cioè in una posizione in cui ero consapevole che ero portatore di un punto di vista, di una certa idea della politica e che bisognava vincere determinate resistenze, abitudini, consuetudini, la mitologia classica, della base del partito. Sarà perché il Veneto orientale con il partito era già stato educato dalla “scuola” di Aldo Camponogara5, che pur non avendo fatto scelte di schieramento con i riformisti, neanche dopo la fine del PCI, lo era sostanzialmente un riformista. Con le mie responsabilità di dirigente territoriale del partito, perché ero un dirigente riconosciuto, mi è stato facile conquistare l’adesione, la simpatia, la partecipazione dei dirigenti della generazione immediatamente successiva alla mia, quelli che oggi hanno 45, 55 anni grosso modo, Marcello Basso6, Franco Artico... […] E’ una vicenda che ho vissuto con questo doppio stato d’animo, veniva meno uno degli elementi caratterizzanti, forti, mitizzati della “diversità comunista”: il centralismo democratico, la sua unità, la sua compattezza pur all’interno di un dibattito che c’era. Dall’altro il fatto che c’era la possibilità di dare uno sviluppo, una consequenzialità visibile, esterna ai miei personali convincimenti, che nel corso della fine anni settanta e negli anni ottanta in particolare, si sono venuti sempre più caratterizzando per letture, per esperienza politica, e per la valorizzazione del pensiero “altro”: il pensiero liberale, Popper, Tocqueville, e dall’altro il mondo cattolico, il pensiero sociale della Chiesa. Mi sentivo molto rinfrancato nel sapere che le mie opinioni, le mie idee trovavano origine in figure come Giorgio Napolitano, Gianni Pellicani, ma soprattutto Giorgio Napolitano di cui leggevo gli scritti e che veniva qui e costituiva un punto di riferimento importante. D’altra parte la nuova stagione del partito era caratterizzata dal confronto di quelle che allora non chiamavamo neanche correnti, le chiamavamo “componenti”, tanto per… continuare a frequentare l’abitudine di non chiamare le cose con il loro nome, che era tipico del nostro partito, seppure con questo disagio avevo fatto la mia scelta. L’esperienza romana mi portava a maggiore vicinanza con il governo ombra, con Gianni Pellicani, con la responsabilità del settore Enti locali. Io lavoravo nell’ANCI7, prima nell’UPI8 poi nell’ANCI, quindi ero molto legato alle cose che faceva la direzione Enti locali, in capo prima ad Angius, poi a Gianni Pellicani, e tutto questo consolidavano, rafforzavano le mie posizioni. Debbo dire che nelle dinamiche congressuali, sia in Federazione che a livello nazionale, né in quelle circostanze, né precedentemente non ho mai assunto posizioni, responsabilità di prima fila. Anzi, confesso una cosa che spesso mi viene in mente, nel dibattito, nel prendere la parola, nell’argomentare pubblicamente nelle riunioni di partito io mi sono sempre sentito una condizione psicologica di grande disagio, di grande difficoltà […], credo per la sopravvalutazione del livello culturale, intellettuale, dialettico dei componenti del partito, come se fosse una grande scuola, una grande accademia, una grande palestra e quindi rispetto ai ruoli che ho assunto, non ho mai svolto ruoli primari nel dibattito politico al comitato federale, o negli organismi rappresentativi o assembleari della Federazione. Ho fatto importanti relazioni in materia di Sanità, Pensioni, di Ente locali, di Riforme, di “142”, di città metropolitana, tanto per dire, ma la dialettica del partito, delle sue logiche, delle sue dinamiche l’ho elusa sostanzialmente, eppure tutti sapevano che ero collocato in una posizione particolare della Federazione. In tutta questa vicenda il mio vantaggio è stato di portarmi dietro un largo seguito di iscritti, di tesserati che poi negli equilibri del voto del Congresso pesano, contano, e un grosso consenso.
[Durante il congresso della Bolognina] ho visto i segni del disorientamento, dello sbandamento, in alcune sezione in particolare, alla Salute di Livenza, Concordia, caratterizzate da una storia organizzativa molto forte, molto solida, molto legata alle lotte sindacali, bracciantili, in cui queste vicende hanno creato disorientamento, smarrimento. Però non lo so se fosse per il gruppo dirigente del partito che c’era nel territorio, c’era una buona consuetudine di processi di accompagnamento all’idea del partito nuovo che sapeva aderire alle maglie della società. Sarà perché c’era stato questo accompagnamento ma il passaggio del partito comunista al PDS, poi DS, è stato vissuto senza tragedia, senza drammatizzazione. Per dire la verità, e le vicende posteriori me lo provano, avrei potuto illudermi che attorno agli anni ‘85-’87, quando più aperto fu il confronto tra posizioni riformiste e posizioni ingraiane, fosse maturata appieno una posizione riformista nei miei compagni del Veneto orientale. Non è stato così, poi le logiche attorno ai primi anni novanta, quando si scompone la prima Repubblica, comincia la vicenda della politica giudiziaria o dei giudici della politica, si scioglie la Democrazia cristiana, c’è la ricerca di una ricollocazione del ruolo dell’ex partito comunista, nel sistema politico, alla fine ciascuno si colloca come meglio ritiene. Non è nemmeno facile tenere in quel contesto la barra di una posizione riformista. Io prendo come argomento significativo, perché l’ho vissuto in prima persona il tema della politica giudiziaria. Protagonista della politica giudiziaria, l’ispiratore, è stato Luciano Violante. Nell’82, quando arrivai in Parlamento, Pellicani mi affidò a Violante. “Questo qui è un bravo ragazzo, è bene che si occupi di questioni istituzionali, di giustizia”, e assunsi quasi subito responsabilità importanti in quel contesto. Collocato in prima Commissione Affari Istituzionali, prima come segretario di Commissione, poi come capogruppo, Violante l’ho vissuto, sentito molto vicino. La politica giudiziaria del partito con tutto quello che comportava, lo scoppio della vicenda di Tangentopoli, Craxi e così via, ebbe in Violante il suo principale ispiratore. Quella scelta assieme alle politiche istituzionali, quale riforma della Costituzione, se la seconda parte della Costituzione fosse riformabile o non riformabile, quali erano le condizioni che potevano consentire il consenso perché funzionassero positivamente le Commissioni parlamentari per le riforme costituzionali, queste due cose le ho vissute in prima persona. Voglio dire che davanti alla nuova discriminante che non è più l’ideologia comunista, non è più, come nella prima Repubblica, il confronto con la Democrazia cristiana, ma è la posizione della sinistra nei confronti del fenomeno “Tangentopoli”, e del rapporto tra Magistratura e politica che fu fortemente segnato da una posizione “integralista” di Violante, che oggi è cambiato molto. Ma allora molti che erano stati timidamente riformisti condivisero questa linea di rigore, di severità di Violante, l’intangibilità della Magistratura, la politica fatta attraverso la giustizia. Pochi furono quelli che dubitarono della validità di questa impostazione, consideravano conseguentemente a tutto ciò il problema dei rapporti con il partito socialista, sia col craxismo ma anche col partito socialista in quanto tale. Nel nuovo contesto degli anni novanta, dopo “Tangentopoli” con tutte le vicende che hanno caratterizzato la seconda parte degli anni novanta, su questi fenomeni arriva Berlusconi. Tutto questo ha fornito il destro a una nuova collocazione del dibattito politico, rispetto al quale c’era una posizione che si veniva sempre più caratterizzando che era quella di Napolitano fino a che non è diventato prima Presidente della Camera, poi Presidente della Repubblica, e di Cervetti, e di Gianni Pellicani, c’era tutto un pensiero e un’attività nella quale io mi collocavo. Il secondo dato molto rilevante del dibattito politico è stato quello delle riforme costituzionali, che ho vissute nella prima Commissione per le riforme costituzionali, quella del senatore Aldo Bozzi [e dove sono rimasto] per nove anni. I grandi temi della riforma che hanno avuto un esito felice sono stati la Legge 142 di riforma degli enti locali, la Legge 241 di riforma della pubblica amministrazione, la Legge di riforma della Presidenza del Consiglio, la legge di riforma della dirigenza. Ma i grandi temi che costituiscono anche adesso argomenti insistenti di dibattito, era la riforma della seconda parte della Costituzione, e cioè se conservare una Repubblica di tipo parlamentare o guardare alle esperienze della Francia, il semipresidenzialismo con il doppio turno, con la coincidenza delle funzioni della rappresentanza della Repubblica con quelle di orientamento del governo, sostanzialmente quello che oggi è Sarkozy, o il modello tedesco, e un riequilibrio nei rapporti tra la centralità del Parlamento e la centralità del governo, dell’esecutivo, del premier. Quel dibattito cominciò nel 1985 con la Commissione Bozzi, che fu fatto saltare, nonostante molti ammiccamenti iniziali su quel testo di riforma, perché prevalse all’interno del partito la posizione del Centro studi Riforma dello Stato, un centro molto importante di riflessione, di elaborazione, di idee. Il centro era presieduto da Ingrao, c’era Rodotà, Barbera, Bassanini, Barcellana, Coturri, Tortorella e lì sotto la guida di Ingrao prevalse l’ipotesi di andare in Parlamento con un testo di riforma della Costituzione. Successivamente ci fu, negli anni ’92, ’93 la Commissione Jotti, incaricata ugualmente di elaborare una proposta di riforma, poi la terza commissione, quella di D’Alema, ’97, ’98, la Bicamerale, che come è noto anche questa è saltata. Questo per dire che un elemento discriminante all’interno del dibattito politico all’interno del PCI-PDS-DS erano le grandi questioni delle riforme elettorali, la legge elettorale, la riforma del Parlamento, la riforma del premierato, che hanno costituito un elemento discriminante delle componenti interne del partito comunista.
[…] [Nel passaggio tra prima e seconda repubblica c’è stata l’emarginazione improvvisa di molti dirigenti autorevoli] il problema è capire che cosa abbia determinato questo esito: […] se è il frutto delle dinamiche interne al partito e alle logiche di appropriazione dei ruoli, o se è il prodotto di un processo, cosa che io ritengo, più profondo che interessa la società italiana nella seconda parte degli anni novanta, la cosiddetta seconda Repubblica, mai nata o mal nata, e poi in questo contesto se la capacità reattiva delle singole persone, delle singole soggettività abbiano giocato un ruolo diverso. Voglio dire che […] nel ’94 scompare la Democrazia cristiana, il partito socialista, i magistrati mettono sotto processo la politica, si salva il PCI, i DS, però c’era l’idea che si fosse consumata la stagione del protagonismo di coloro che erano nati, si erano formati, si erano attrezzati nel contesto della prima Repubblica: c’era il “nuovismo”, c’era l’antipolitica!
Io nel 1994 sono stato candidato a Portogruaro per la terza volta alla Camera dei Deputati; Forza Italia che scendeva in campo per la prima volta, fino al giorno prima del deposito delle lista si sapeva che non era riuscita a trovare un candidato nel Veneto orientale, perché allora entrava in vigore il sistema del collegio uninominale. Si seppe solo il giorno dopo che avevano trovato uno, Lucio Leonardelli, che aveva messo in piedi una radio locale. Si diceva lui o “il cavallo di Caligola”, sarebbe stata la stessa cosa. A proposito della “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto che entrava in campo, era chiaro che avremmo vinto, ci mancava altro che uno come me, dopo due legislature nel Veneto orientale contro un candidato così, di Forza Italia! Come è noto hanno fatto piazza pulita, hanno preso tutti i collegi e io non sono stato eletto. E’ stato eletto Lucio Leonardelli. La società nel suo complesso espresse la sensazione della fine di un epoca, di fine di un certo tipo di classi dirigenti, nominativamente non c’era più la DC, il PSI, coloro che erano dell’ex partito comunista erano il vecchio e veniva avanti il nuovo. Si è costruito una psicologia della regressione, mi tiro da parte, mi metto fuori. […] Mi ricordo alcune conversazioni con Gianni Pellicani, io andavo a casa sua, stavamo tante ore a chiacchierare, scambiandoci le informazioni. Poi Gianni era persona molto curiosa, molto attento, avevi l’impressione che non volesse lasciarsi sfuggire nulla, dove mettere la mano, dove dire un’opinione, il tirare le fila, essere “pater familias” nonostante non fosse più in una posizione di preminenza.
[…] Secondo me ha concorso l’appropriazione di apparati di partito da parte di altri […] e all’origine, che in qualche modo giustificava anche una posizione psicologica dello “stare a guardare”, c’era il processo più profondo della società italiana, frastornata dalla fine della prima Repubblica e dalle sue categorie concettuali interpretative e rispetto alle quali faceva difficoltà a trovare le proprie posizioni.
Io finito di fare il deputato sono tornato a scuola ed ero convinto che avrei passato la mia vita a leggere, la mia passione, a studiare, magari a scrivere, fino a che non ho visto una possibilità di impegno che mi ha molto coinvolto, non tanto in un ruolo che mi consentisse di ricollocarmi nel partito, anche se c’erano tutte le condizioni per poterlo fare, ma in un ruolo istituzionale, che è il difensore civico. Era l’istituzione, l’amministrazione, i rapporti diretti con le problematiche della cittadinanza, è quello che mi ha sempre più interessato.
Indice dei nomi
Giorgio Amendola
Gavino Angius
Franco Artico
Augusto Barbera
Barcellana
Franco Bassanini
Marcello Basso
Enrico Berlinguer
Silvio Berlusconi
Aldo Bozzi
Massimo Cacciari
Gaio Cesare Caligola
Aldo Camponogara
Giovanni Cervetti
Cesco Chinello
Coturri
Bettino Craxi
Massimo D’Alema
Pietro Ingrao
Nilde Jotti
Lucio Leonardelli
Giorgio Napolitano
Achille Occhetto
Gianni Pellicani
Karl Popper
Luca Ricolfi
Stefano Rodotà
Nicolas Sarkozy
Alexis de Tocqueville
Aldo Tortorella
Luciano Violante
1 Cesco Chinello, cfr. Dizionario biografico dei veneziani
2 Massimo Cacciari, cfr. Dizionario biografico dei veneziani
3 Luca Ricolfi, sociologo, insegna presso la facoltà di Psicologia dell’Università di Torino, ha pubblicato numerosi saggi ed è editorialista del quotidiano La Stampa.
4 Gianni Pellicani, cfr. Dizionario biografico dei veneziani
5 Aldo Camponogara, cfr. Dizionario biografico dei veneziani.
6 Marcello Basso è stato eletto alla Camera (1996-2001) e al Senato (2001-2006) per i Democratici di Sinistra, attualmente è Presidente provinciale dell’ANPI di Venezia.
7 ANCI, acronimo per Associazione nazionale comuni d’Italia.
8 UPI, acronimo per Unione province d’Italia.